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Nel nome del Padre... stupiti che la realtà esiste
inserito il 17.08.2010
In quel gesto c’è tutto il patrimonio essenziale della fede: un Padre che non è solitudine ma comunione di persone; un Figlio morto sulla croce per l’amore del Padre verso di noi.
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«Ogni volta che diciamo: nel nome del Padre, riconosciamo che della vita, la nostra vita, non siamo padroni, non ne disponiamo, l’abbiamo ricevuta e per questo dobbiamo avere ogni giorno sulle labbra solo la parola della gratitudine e della riconoscenza». Bastrebbe, basta questa frase per rovesciare il mondo. Per prendere in contropiede tre secoli di modernità, quella che ha sostituito a questa evidenza la falsa coscienza di un uomo che si vuole creatore della realtà e padrone di se stesso. Con gli esiti di confusione, di nichilismo e di infelicità che abbiamo sotto gli occhi. Anzi: che abbiamo nella testa, tutti. È una tentazione originaria, risale alla notte dei tempi, ma in questa nostra epoca è diventata cultura dominante. Dominante al punto che nessuno di noi se ne rende più conto. Ma proviamo solo a pensare per un momento che razza di rivoluzione rappresenterebbe, per ciascuno di noi, alzarsi la mattina, aprire gli occhi e, pieni di stupore perché le cose esistono, io esisto, sentire sgorgare dalla nostra coscienza un inno di ringraziamento. Non perché le vicende della nostra vita vanno secondo i nostri calcoli, non perché stiamo bene e abbiamo tutto. No, sarebbero uno stupore e una gratitudine che ci farebbero affrontare tutto nella giornata, le cose belle e le cose brutte e pesanti, le contraddizioi, la malattia, persino la morte, con il cuore pieno di gioia. Questo, in fondo, non è ancora il cristianesimo, è la stoffa della nostra umanità (qualcuno lo chiama senso religioso). Cristo, in fondo, è venuto per rendere possibile all’uomo di vivere così, di vivere secondo la sua natura e realizzare la sua personalità. Un uomo che si riconosce tratto dal nulla da un padre che è infinitamente più padre di quello naturale («tam pater nemo», dice la Scrittura).
La frase l’abbiamo presa dalla predica di mons. Grampa che, aprendo ieri ufficialmente il pellegrinaggio diocesano con la Messa pomeridiana dentro la basilica inferiore di Lourdes, ha tenuto una catechesi semplice e densa sul “segno della croce”. È il tema di quest’anno a Lourdes: quel gesto che ci hanno insegnato a fare sin da bambini. Il gesto che Romano Guardini (uno dei più grandi educatori del XX secolo, citato da mons. Grampa), raccomandava di compiere così: «Fallo bene: lento, ampio, consapevole. Allora esso abbraccia tutto il tuo essere, corpo e anima, pensieri e volontà, senso e sentimento, agire e patire, tutto vi viene irrobustito, segnato, consacrato nella forza del Cristo, nel nome del Dio uno e trino». Nel segno della croce c’è tutto il patrimonio essenziale della fede: un Padre che non è solitudine ma comunione di persone; e un Figlio che è venuto a morire sulla croce per rendere più vicino e tangibile l’amore commosso con cui il Padre continua a crearci momento per momento, a toglierci dal nulla, anche quando il nostro si rivela smemorato, ribelle e traditore.
La Messa è stata poi un grido cantato da un coro di ottocento voci, rese persino capaci (un vero dono dello Spirito… se pensiamo a quel che accade di solito nelle nostre chiese) di non gridare troppo ma di ascoltare il canto comune di un popolo umile e possente.
(di Claudio Mésoniat, articolo tratto dal GdP del 16.08.2010)
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