Attualità e Notizie

Primo: vincere la pretesa di potercela fare da soli
inserito il 19.08.2014

La parola del vescovo: L’omelia della Messa che ha aperto il pellegrinaggio.
Riportiamo il testo che ha fatto da canovaccio al primo intervento di monsignor Lazzeri nella basilica del Rosario davanti a tutti i 700 pellegrini.

Sono i testi del giorno che ci aiutano questa sera a entrare nel nostro percorso nell’irradiazione della Vergine Maria alla scoperta della gioia della conversione. I due brani di oggi si prestano, in particolare, a  mettere in luce il punto più delicato che deve affrontare chiunque si mette in cammino, come abbiamo fatto noi dal Ticino, alla ricerca di una qualità differente del nostro vivere umano, di un’intensità e di una lucentezza, che sappiamo di non poter comprare o prenderci in alcun modo, ma possiamo soltanto ricevere.

Per certi versi, il nostro essere arrivati qui ci rende somiglianti a quel tale che nel vangelo di oggi si avvicina a Gesù ponendogli la ben nota domanda: «Maestro, che cosadevo fare di buono per avere la vita eterna?». Siamo certo partiti dalle nostre case, dalle nostre occupazioni e preoccupazioni quotidiane con l’intenzione di fare qualcosa di buono, di prendere la giusta direzione, di ricevere dal Signore, per intercessione di Maria, l’indicazione efficace per muoverci finalmente nel modo giusto.

Certo, l’espressione «vita eterna», risulta un po’ astratta alle nostre orecchie. Ci sembra essere una preoccupazione d’altri tempi, quella di salvare l’anima, di mettere al sicuro gli sviluppi ultraterreni della nostra esistenza. «Vita eterna», però, sulla bocca di quell’uomo è da intendere in maniera molto concreta: non solo e non tanto la vita dopo la morte, ma la vita vera prima di essa, la vita con quella intensità, pienezza e verità, prima del termine i questa esistenza terrena.

E questo ci interessa, certo. Sappiamo tutti bene che non è automatico riuscire la vita, fare in modo che essa non ci risulti un peso, ma ci dica veramente, in tutti i suoi aspetti e in tutte le sue componenti che è davvero un bene l’essere venuti al mondo. Le piante e gli animali non hanno questa preoccupazione, ma noi, esseri umani, sì. L’esperienza che facciamo, dopo l’infanzia, è quella che niente ci viene dato  gratuitamente.

Se vogliamo qualcosa dobbiamo conquistarcelo. Occorre intraprendere una strada per ottenerlo, qualche volta strapparlo, perché le circostanze sono impietose e solo chi ha grande tenacia sembra promesso al successo. È quello che intravvediamo in quella certa enfasi, in quel tocco di esagerazione, nella domanda che viene posta a Gesù: «Cosa devo fare di buono?». Carissimi, la prima scoperta da fare, arrivando a Lourdes, è proprio questa. Incontriamo Gesù che ci fa subito riflettere sullo slancio che ci ha portati qui: «Perché mi interroghi su ciò che è buono? Buono è uno solo».

È il riportare tutto alla grande sobrietà della fede, alla serietà di un cammino che non potremo mai scaricare su altri o alleggerire trovando soluzioni magiche date dall’esperto. Non siamo venuti qui per scappare dall’umano con le sue esigenze di temporalità, le sue dimensioni di irreversibilità e di opacità. Nessun Maestro e nessun consiglio geniale potrà mai dispensarci dal percorrere la via umile, nascosta, quotidiana dell’umano che la bontà la può soltanto ricevere dall’Unico, dall’alto, dentro un percorso di obbedienza ai comandamenti, alla realtà del nostro essere in relazione con le cose e con gli altri.

Questo non significa spegnere i grandi ideali, mortificare il desiderio di cose grandi e luminose per la nostra vita. Gesù non condanna quel desiderio di pienezza che nasce nel nostro cuore e che provoca tanta sofferenza ogni volta che esso sembra smentito dalle frustrazioni, dalle sconfitte, dalle perdite che dobbiamo subire. Occorre però che troviamo un altro modo di vivere la mancanza, una maniera differente per fare il lutto, come ci ricorda la prima lettura.

Sembra disumano quanto viene chiesto a Ezechiele alla morte della moglie: «Non piangere, non versare una lacrima. Sospira in silenzio e non fare il lutto dei morti». E ancor più duro il destino del popolo che dovrà vedere in lui il segno per vivere la sua catastrofe. Sta però qui il punto di partenza della conversione che ci apre alla gioia: «Farete proprio come ha fatto lui e saprete che io sono il Signore».

Non conosceremo mai la grazia del Signore in una vita di compensazioni, di surrogati o di espedienti per non guardare in faccia la realtà della nostra vita. L’illusione che impedisce all’uomo del vangelo di uscire  alla sua tristezza è che si possa raggiungere la vita piena adempiendo a tutte le cose che sono da fare per ottenerla. Egli va da Gesù perché pensa di avere esaurito tutto quello che avrebbe potuto fare e di avere così eliminato il vuoto, la mancanza, l’assenza nella sua vita: «Tutte queste cose le ho osservate; che altro mi manca?». Proprio qui però si nasconde ciò che blocca la nostra umanizzazione: la mancanza della mancanza, l’incapacità di mancare, di riconoscere l’impossibilità di vivere in un mondo senza l’altro, autoportante, chiuso sulle proprie riuscite.

Non ci sono manifestazioni esteriori che possono sostituire o attenuare la fatica di questo passo essenziale. Non posso vivere senza l’altro.

(di monsignor Valerio Lazzeri, articolo tratto dal GdP del 19.08.2015)



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